Meglio (quasi) soli che male accompagnati: diceria o verità?
di Riccardo Zironi*
Immagina questo scenario: senti di aver bisogno di aiuto, e ti trovi in una stanza con tanta gente. Ti rassicura il fatto che – potenzialmente – hai accanto una marea di persone che potrebbero aiutarti, o preferiresti trovarti a tu per tu con una sola persona? Ben lungi dall’essere un elogio alla solitudine, in questo articolo sono felice di raccontarti una delle più appassionanti ricerche della psicologia sociale. Che potrebbe stupirti.
Un po’ di storia: l’omicidio in pubblico di Kitty Genovese
Anni Sessanta, periferia di New York. La giovanissima Kitty Genovese venne aggredita e successivamente uccisa da un uomo. Il tutto di fronte allo sguardo di ben 38 persone affacciate alle finestre delle loro case. Nessuno di loro intervenne, e nessuno di loro chiamò la polizia.
Fra le tante spiegazioni avanzate, una delle più gettonate fu l’indebolimento «del sistema di valori della società contemporanea» (Palmonari & Cavazza, 2012): con una mirabile euristica – ossia una scorciatoia di pensiero – i più attribuirono la causa del mancato soccorso all’insensibilità dilagante degli individui. Qualcosa che faremmo senz’altro anche noi, gridando che non ci sono più i valori di una volta, che ci troviamo a (soprav)vivere in una società oramai perduta e sull’orlo del baratro.
Tuttavia, secondo gli psicologi Bibb Latané e John Darley, questo non poteva essere sufficiente a spiegare tale insensibilità e quindi adottarono una strategia di ricerca sperimentale per identificare le cause di quell’avvenimento. In altri termini, secondo i due studiosi, non era sufficiente scandagliare le menti di quei 38 soggetti, ma era opportuno spingersi oltre, tenendo presente che quel triste episodio era avvenuto in pubblico, di fronte a veri e propri “spettatori”.
Un caso del genere andava dunque incastonato in un contesto dinamico, fatto di interazioni, di scambi, di furtivi sguardi furtivi silenziosi che rimbalzano da un soggetto all’altro come palline da ping pong. Un contesto sociale, appunto.
La costruzione di una teoria: Latané e Darley
«La formulazione di una teoria, o di un modello, costituisce l’atto finale del processo di ricerca» (Palmonari & Cavazza, 2012). Ecco, il modello elaborato da Latané e Darley vuole proprio mettere a fuoco ciò che succede quando ci troviamo in una situazione di potenziale pericolo. Vediamone i 5 punti cardine:
- Prima di tutto, dobbiamo accorgerci che ci sia qualcosa di anomalo nell’ambiente.
- In secondo luogo, dobbiamo decidere se ci troviamo in una situazione che richiede un aiuto.
- Dobbiamo assumerci la responsabilità: tocca a me?
- A questo punto, è necessario decidere come intervenire.
- Infine la decisione va implementata, ossia deve diventare azione dotata di senso.
I due studiosi, per verificare cosa succede nel punto 1 del modello riportato qui sopra, misero a punto esperimento così organizzato: nella prima condizione, il soggetto sperimentale si trovava in una stanza da solo a compilare un questionario; nella seconda, gli venivano affiancati due complici dello sperimentatore; nella terza, gli si affiancavano invece due soggetti del tutto ignari dell’esperimento. In quella stanza iniziava poi a dilagare una densa nuvola di fumo, che fuoriusciva da una feritoia posta sulla parete. Proprio in questa situazione i due studiosi registrarono dei dati molto interessanti:
- nel 63% dei casi, i soggetti soli si accorsero della presenza di fumo nella stanza entro 5 secondi.
- solo nel 26% dei casi, i soggetti con altre persone diedero segno di essersi accorti del fumo (sempre entro lo stesso lasso di tempo).
Un fenomeno d’influenza sociale
Ma cosa significa tutto questo? Significa che la presenza di altre persone influenza consistentemente il modo in cui ispezioniamo l’ambiente. In un contesto pieno di gente, tendiamo a sottostimare quello che accade attorno a noi.
C’è dell’altro: i due psicologi notarono che il 75% dei soggetti soli andava ad avvisare la segretaria che si stava verificando qualcosa di anomalo, contro un 38% di soggetti posti nella condizione con altre persone. Pensiamoci un secondo: nessuno in pubblico ama fare la “figura da fifone”, proprio perché la stragrande maggioranza delle norme sociali prescrive un comportamento controllato, rigoroso, maturo.
E quindi come facciamo a decidere nella vita quotidiana se sta succedendo qualcosa di pericoloso? Molto semplice: guardiamo gli altri, cercando di inferire informazioni rassicuranti dal loro comportamento. Il problema è che anche loro fanno lo stesso: osservano noi. E in questo continuo rispecchiamento, nessuno (o quasi) fa nulla.
Questo fenomeno viene denominato «ignoranza pluralistica» (Palmonari & Cavazza, 2012): nessuno in pubblico dà chiari indizi su come sta interpretando la situazione, né tende ad agitarsi, per cui la situazione viene in fin dei conti etichettata come non pericolosa.
Morale: la presenza di altre persone non solo fa sì che ispezioniamo l’ambiente con minore attenzione, ma influenza anche le nostre decisioni. Quindi, è molto meno probabile che interveniamo.
A chi tocca?
Trattiamo qui brevemente anche la questione della responsabilità: ammettiamo ora di esserci accorti che ci troviamo in una situazione pericolosa, o che percepiamo come tale. La domanda che ci poniamo è: devo occuparmene proprio io?
In un altro esperimento messo a punto da Latané e Darley, è emerso che, in presenza di altre persone, tendiamo ad aiutare molto meno rispetto a quando ci troviamo soli. Anzi molto molto meno. Vediamone in sintesi i risultati: l’85% dei soggetti a cui era stato fatto credere di essere i soli partecipanti andò a soccorrere una persona in difficoltà, mentre solo il 31% delle persone a cui era stato detto che non erano sole si prodigò per offrire il proprio aiuto. È un tipico esempio di diffusione di responsabilità: “ma se c’è qualcun altro, perché devo intervenire io?”.
Ed è proprio qui il punto-chiave di questo breve articolo: se percepiamo di essere in una condizione di pericolo – o che qualcun altro lo sia – non indugiamo troppo tempo a scrutare cosa fanno le persone attorno a noi: facciamoci sentire! Nel migliore dei casi sarà stato solo un falso allarme, potremo eventualmente scherzarci su. Magari dicendo che pensavamo fosse solo una candid camera o un giocoso scherzetto del programma “Deal With It”.
Bibliografia essenziale:
Palmonari, A., & Cavazza, N. (A c. Di). (2012). Ricerche e protagonisti della psicologia sociale. Il mulino.
*Riccardo si presenta così: “copywriter e autore, ama guardare al microscopio dell’anima il mosaico del vivere che ci circonda”