Il medioevo delle passioni
a cura di Dr.ssa Lucia Polidori
Per essere autentici occore avere autoconsapevolezza di se’ e dare un senso alla propria vita
Il nostro presente potrà anche non piacerci ma è la dimensione in cui articoliamo le nostre scelte, le nostre parole, i nostri gesti, le emozioni.
È per questo che percepirlo come nostro nemico o, come accade più frequentemente, come estraneo, esterno a noi, è un’esperienza molto dolorosa che spesso ci porta al nichilismo, alla inazione, ad accettare passivamente e tacitamente condizioni che ci sembrano più forti e grandi di noi, ineluttabili.
Quando ciò accade è segno che in qualche modo abbiamo interiorizzato quella distanza dal presente e perciò rinunciato ad analizzarlo, a capirne la natura, in breve alla possibilità di metterlo in discussione e migliorarlo.
Se vogliamo capire il senso del nostro presente o dargliene di nuovi, se possibile, l’unica via praticabile è quella della riflessione critica sulla sua forma e sulla sua natura, di un’analisi non frettolosa sulle premesse che stiamo mettendo alla base del nostro presente e anche del nostro futuro.
Invece sembra che imperi la cultura della “soluzione subito” a qualunque questione, sia essa individuale o collettiva. Un metodo di pensiero, questo, che schiaccia la dimensione di analisi e riflessione riguardo a un problema (la dimensione critica, appunto) su di una dimensione pratica, in genere finalizzata e guidata da criteri di ottimizzazione di tempo, di utilità esclusivamente personale o, comunque, di vantaggio. Vale a dire che ragioniamo su ogni cosa con le stesse regole che utilizza il “mercato” e in base ad esse organizziamo non solo il nostro lavoro ma le nostre esistenze.
Uno sguardo libero sul presente non ha difficoltà a rilevare la supremazia, quasi totalitaria, del pensare pratico, del sapere utile. Le dinamiche interpersonali sono sempre più spesso connotate da lotte di potere secondo la legge “il più forte vince e stabilisce le regole”, che infatti è una legge tipica del mercato, e sempre meno da contenuti umani, da scambi d’amore, paritari e solidali con l’altro (compagno, figlio, collega, amico, vicino di casa..).
D’altronde tutto ciò non è né necessario e neanche utile secondo la logica del pensiero pratico. L’indifferenza, la non urgenza di una riflessione sulla dimensione umana della società in cui esistiamo è rinforzata e promossa da una cornice culturale all’interno della quale vengono progressivamente ridotti gli spazi e gli strumenti in grado di stimolarla.
Sembra che l’unico sapere ritenuto utile e necessario sia il sapere pratico e persino l’impianto attuale della formazione scolastica, quella istituzionalmente ritenuta necessaria per il futuro di un paese e perciò garantita a tutti, risponde ormai al principio totalizzante del sapere pratico.
Con le ultime riforme, infatti, è stato notevolmente ridotto, in alcuni casi abrogato, l’insegnamento di discipline umanistiche e sociali perché poco utili e richieste dal mercato.
L’economia è per lo più scaduta a scienza monetaria, contabile ed aziendale, perdendo così la dimensione sociale nell’analisi speculativa dei meccanismi di produzione; dimensione che è stata presente sin dalle origini della disciplina economica.
Stiamo tecnicizzando il nostro sapere, lo modelliamo sempre più sui bisogni dell’economia che, ovviamente, non esauriscono i bisogni di una società e dell’uomo, che sono anche quelli di dare un senso al proprio lavoro e in generale alla propria esistenza, e che consistono anche di passioni.
Forse è anche per questo che le nuove generazioni non amano lo studio (in latino “studium” significa passione), cresciute in una società in cui se si parla di passione, ormai, si fa solo quando è collegata alla ferocia della violenza.
La riflessione critica ci aiuta a muoverci nello spazio più ampio del pensare, nel luogo non solo del “già dato”, del riconoscibile, ma del possibile che insiste intorno a noi, nel nostro presente, ma che non avevamo ancora pensato.
È il luogo dove si interrogano le regole per pensare altre forme del presente, intravedere nuove potenzialità. Purtroppo stiamo rinunciando a questa possibilità a favore di un dogmatismo dell’efficacia pratica, condannandoci ad una continua perdita di senso, inevitabile se si svuota l’uomo della sua dimensione umana.
La capacità di rinascita da ogni crisi, di una società come di un singolo individuo, è la capacità di cambiamento e questo non può ingenerarsi senza una riflessione critica.
Dovremmo esercitarci ad avere sguardi meno superficiali, capaci di leggere nel presente e nel passato anche quello che finora ci era sfuggito.
Dovremmo esercitare e non limitare la capacità di andare oltre, al di là del già comunemente pensato; pensare di più ed in modo diverso da come siamo abituati a fare, per non rischiare di ritrovarci in un medioevo moderno di passioni e di pensiero.
In questo senso, si tratta di un lavoro da fare su noi stessi, oltre che sulle cose che vogliamo cambiare.
Perché farlo? Per dare un senso alla nostra vita- essere autentici- e per la qualità delle nostre relazioni.