Essere o dover essere: non è forse questo il dilemma?
di Sara Fabrizio – giornalista, pubblicista sarafabrizio27@gmail.com
Ricordo, da sempre, di aver creduto fermamente nel fatto che le donne potessero essere ciò che vogliono. Poter credere di fare tutto e il contrario di tutto, di essere proprio come gli uomini. E non parlo di una parità fittizia fatta di apparenze e di “machismo all’incontrario” ma di una reale possibilità di emancipazione. Non ho mai avuto dubbi su questo. Probabilmente pensavo che bastasse credere nella parità per farla diventare cosa viva e reale. La dicotomia, però, tra ciò che si pensa di essere e ciò che si è realmente può mettere facilmente in crisi una persona che aveva la voglia di cambiare il mondo ma che, a conti fatti, non riesce nemmeno a cambiare sé stessa, stretta com’è dalla cornice che si è fatta mettere intorno. Il quadro, signora mia, è complesso ma la cornice è semplice. Quattro assi di legno: obbligo, rispetto, testa bassa, sempre una buona parola. Devi muoverti lì dentro. E hai voglia a cercare la crepa per uscire. Arriverà sicuramente un falegname con il suo mastice a chiudere, a rattoppare. E il più delle volte quel falegname sei tu. Alla soglia dei 45 anni, una laurea, diversi corsi, due figli, un marito, tre cani, la mania per la scrittura e troppa voglia di uscire di casa e dalla cornice, ho trovato un lavoro. Per essere indipendente, per avere possibilità di spesa e per non sentirmi sempre l’ultima della fila ogni volta che, stando insieme a qualcuno, quel qualcuno iniziava a parlare dei colleghi, del lavoro, del gravoso impegno, della gestione casa/lavoro, in realtà spesso delegata a qualcun altro, nonni o tate che fossero. Ma che fatica comunque!
Il lavoro si sa è lavoro, routine per lo più. Ho risposto ad una selezione per un impiego totalmente distante da quello che avrei voluto fare e da ciò che avrei voluto essere. Quando si fanno le cose per caso di solito quelle riescono al primo tentativo. E così è stato. Idonea, tre mesi a sessanta chilometri di distanza da casa per un totale di undici ore fuori dal mio recinto. Equivale a passare da zero a cento in due secondi. L’intera vita da riorganizzare. Forte della mia credenza secondo la quale le donne possono fare tutto e poi le cose si aggiusteranno prima o poi, ho preso di petto la situazione, dato poche e chiare istruzioni a chi avrebbe dovuto prendersi cura della mia prole, sistemate le faccende burocratiche, mi sono imbarcata in questa nuova esperienza. La mansione non prevede stimoli intellettuali, solo azioni meccaniche da ripetere tutti i giorni senza grandi variazioni di sorta. Punti di forza: colleghi gentili e lavoro all’aperto. Stop. Che mi direte, non a torto, è già tanto!
La prima settimana è passata in fretta, senza grossi scossoni. Ma la vocina dentro di me che non tace mai e che mi ricorda incessantemente di non rilassarmi troppo, mi stuzzicava. La sentivo bisbigliare, mi diceva di stare all’erta. Iniziata la seconda settimana qualcosa inizia a scricchiolare. Sono sicura che fossero i tredici anni durante i quali non mi sono allontanata da casa. 24 ore su 24 in servizio presso i miei figli. Impiego bellissimo, sicuramente, ma devo riconoscerlo: pesante. E proprio quei 13 anni che hanno sedimentato nelle persone che fanno parte della mia vita la certezza granitica che io ci sarei sempre stata, in ogni momento, a risolvere qualsiasi evenienza. Dalla più sciocca alla più seria, dal legare una coda di cavallo con capelli ribelli, alla corsa al pronto soccorso per una febbre a quaranta che non voleva saperne di scendere. La mia vita, in queste settimane di lavoro lontano da casa, mi è sembrata molto difficile. Mi sono detta ogni giorno che le cose si sarebbero aggiustate, che sarebbero andate meglio. Ma non è stato così. Nemmeno ricevere lo stipendio a fine mese l’ha fatta sembrare più semplice. La verità è che la complessità di conciliare casa e lavoro può riuscire solo se ti sei concessa il lusso di delegare, non dico sempre, ma almeno ogni tanto, qualche tua mansione a qualcuno diverso da te. Che ne so, tenere i tuoi figli per più del tempo che ti serve per fare la spesa, oppure gestirli per una cena con tuo marito. Ma quando? Le volte che è accaduto si contano sulle dita delle mani. E questo mi riporta al concetto di parità. Che in realtà è veramente molto sopravvalutato. Se ne fa un gran parlare ma alla prova dei fatti, se una donna non si è presa prima il suo spazio, non può pretendere di averlo dopo. Questo significa che se eri casalinga, (e con questo termine intendo includere tutte le mansioni che una donna compie in casa per gestire le incombenze familiari, compresa la burocrazia che gira intorno alla scuola o la necessità di prenotare una visita o accompagnare i figli alle attività pomeridiane o supervisionare i compiti o fare in modo che bulli e società malata non abbiano la meglio su di loro, in molti casi anche accudire i propri genitori e dopo, solo dopo, ci sono il rassettare, il lavare i piatti, lavare, stendere, raccogliere, stirare, piegare e sistemare i panni e così via), resti casalinga anche quando lavori. Nessuno prende in carico il tuo compito. Hai insegnato per anni ai tuoi figli che è giusto che una donna debba studiare, formarsi, cercare un lavoro adeguato alle sue necessità e alle sue capacità e poi, quando tocca a te, devi fermarti perché la realtà è diversa da tutta la teoria che hai incamerato in anni di femminismo a chiacchiere. Senza un welfare che sostenga la famiglia, senza quella comunità che pochi anni fa era la spina dorsale della società perché era inclusiva e solidale, una donna come me perde la possibilità di emanciparsi. Deve rinunciare altrimenti va tutto a rotoli. E non è una resa tantomeno una scusa, come molti potrebbero pensare, è rendersi conto della realtà. Non vuoi mollare, ma devi pensare seriamente di farlo.
Piangermi addosso mi ripugna. Posso considerarmi veramente una persona fortunata nonostante le piccole difficoltà quotidiane. Ho un tetto sotto cui vivere, ho da mangiare e solo qualche acciacco, devo ammetterlo sarà l’età, ma tutto sommato sono ciò che si può a ragione definire una che ha tutto il necessario per vivere con il sorriso sulle labbra. Il problema però sono proprio io che non riesco ad accontentarmi di ciò che ho. Avrei voluto di più per me. A partire da un pizzico di sano egoismo. Che mi avrebbe aiutato a prendermi cura della me stessa bambina che sognava un grande futuro e che ha consumato libri su libri per poter raggiungere un obiettivo che però è rimasto lì, sospeso. Dagli ultimi mesi della mia vita traggo molti insegnamenti. Uno su tutti è quello di cominciare a guardarmi dentro e intorno, a capire cosa voglio soprattutto per dimostrare a mia figlia che è vero che le donne possono fare ciò che vogliono ma che per arrivare a questo devono credere soprattutto in loro stesse. È questo il punto, è questo ciò che mi è mancato: non ho puntato su me stessa. Ho lasciato giocare gli altri.
Commento: conosco l’autrice ed ho pubblicato questo “ piccolo sfogo” perché dà parola al sentire di tante altre donne incontrate nel mio lavoro . E’ un momento durissimo, una sberla in pieno viso, ma è solo un momento, una sosta, che ha già in sé il seme della riuscita, di una nuova resilienza. Sara , come le sue consorelle, sa già come proseguire: “ cominciare a guardarmi dentro e intorno, a capire cosa voglio soprattutto per dimostrare a mia figlia che è vero che le donne possono fare ciò che vogliono ma che per arrivare a questo devono credere soprattutto in loro stesse “.
Basta non arrendersi: la prima mossa è già fatta. Certo che un intervento di solidarietà, sociale o personale, aiuterebbe e non poco!
Chi è Sara Fabrizio ?
Mi chiamo Sara Fabrizio. Sono nata ad Ortona, cittadina abruzzese affacciata sulla costa abruzzese dell’Adriatico. Sono laureata all’Alma Mater Studiorum di Bologna in Scienze internazionali e diplomatiche con una tesi sull’Afghanistan dei Talebani e Al-Qaeda nel dicembre del 2004. Cresciuta a pane e politica grazie alla storia della mia famiglia, ho continuato a coltivare l’interesse per la questione pubblica nazionale e internazionale.
Tornata in Abruzzo, ho preso carta e penna ed ho iniziato la mia esperienza come cronista per un quotidiano regionale. Ho imparato a conoscere il territorio e la sua gente, ad amare ogni angolo di questo piccolo gioiello che è la mia terra. Sono iscritta all’albo dei giornalisti-pubblicisti della Regione Abruzzo dal 2006. Conclusa l’esperienza da cronista ho continuato a scrivere collaborando con un periodico locale e ho proseguito l’aggiornamento professionale partecipando a diversi corsi concentrandomi sulle tematiche storiche e ambientali. Attualmente sono impegnata nell’approfondire aspetti della comunicazione riguardanti soprattutto il mondo “social” che evolve rapidamente modificando il modo di raccontare la società e la vita in generale.
Amo in maniera viscerale il paesaggio e la natura. Credo fortemente che nella loro tutela ci sia la rinascita anche economica dei territori, soprattutto di quelli periferici che regalano scorci da poesia. Condivido l’idea di uno sviluppo sostenibile come strada maestra per non perdere “il mondo che abbiamo preso in prestito dai nostri figli” (nativi americani).
La lettura e la scrittura accompagnano la mia crescita sin da bambina. Da “Piccole donne” in poi, la mia curiosità è stata alimentata dalle parole e dalle storie scovate nei grandi classici o nelle biografie dei protagonisti del nostro tempo. Mi dichiaro affetta da empatia universale e resto un’inguaribile ottimista. Per di più con la passione per il buon cibo!
sarafabrizio27@gmail.com